Articoli su Giovanni Papini

2024


Luca Caddeo

“Italia, paese di pagliacci e di burattini”. Piccolo discorso sul Diario di Giovanni Papini

Pubblicato in: Pangea, rivista avventuriera di cultura & idee
Data: 23 luglio 2024




“Il mondo brucia. Siccità – promessa di carestia.
Tutto si riduce, fra gli uomini, a discussioni e uccisioni: saliva e sangue”.


Nella introduzione del Diario di Giovanni Papini – pubblicato postumo nel 1962 – l’editore Vallecchi sostiene che il documento non rappresenterebbe la “testimonianza più intima e segreta dell’uomo” giacché lo scrittore fiorentino sarebbe stato perfettamente cosciente di non assomigliare all’autore di Diario intimo, Henri-Frédéric Amiel. E in effetti il diario 1916-1952 difficilmente potrebbe essere interpretato alla stregua di una compiuta opera letteraria – come invece, a dispetto dell’autobiografismo, si può certamente affermare per esempio di Un uomo finito, capolavoro papiniano del 1913. D’altra parte nel 1922 è lo stesso Papini ad ammettere di avere ripreso il diario cinque o sei volte, infatti “chi ha la malattia dell’ego non si confessa a sé solo”. Purtuttavia la stessa probabile carenza di rielaborazione stilistica e la possibile indifferenza nei confronti del lettore, rendono il testo degno di considerazione svelando in modo genuino, se non i moti più abissali dell’animo di Papini, i pareri più schietti, a tratti impietosi, su autori, libri, momenti e personaggi storici a lui coevi. Si potrebbe perciò dire del diario di Papini ciò che nel 1947 lo stesso autore scrisse del diario di Longanesi:

“è tristissimo e in qualche punto ripugnante perché fa vedere ogni sorta di caos e di dissolvimento”.

Non a caso Longanesi – per certi versi disincantato quanto Papini – sarebbe stato “uno scettico malinconico ma intelligente, acuto, malizioso, maligno” e il suo diario sarebbe stato “un terribile documento sugli intellettuali italiani di questo tempo” – appunto come il lungo Diario che ci accingiamo brevemente a presentare. Se nei primi anni Papini si limita a registrare aspetti quasi insignificanti della sua vita e il diario sembra una sorta di agenda dove segnare fugaci ricordi, strani sogni e propositi di vario genere, via via, qua e là, la monotona prateria delle annotazioni è rischiarata da intuizioni che, forsanche inconsapevolmente e in filigrana, mostrano comunque l’inimitabile genio di uno degli autori più eretici, incompresi e infine immeritatamente obliati del Ventesimo secolo.

Nel 1947 lo scrittore si sorprende della tendenza umana “a ritoccare e a integrare con la fantasia” i ricordi “per renderli più verosimili e più drammatici”. L’arte infatti – ovvero “la potenza dell’immaginazione” – sarebbe “la signora del mondo” – sia in politica, dove sarebbe l’unica a suscitare amore e a muovere veramente i popoli, che nella vita personale. Queste riflessioni non contraddicono quanto asserito in precedenza perché, piuttosto, mettono l’accento sulla capacità ermeneutica dell’essere umano che talvolta – come almeno in parte in questo caso – si esprime per così dire inconsciamente, financo implicitamente, essendo l’uomo, alla stregua di quanto asserito da Cassirer, in quanto tale un essere simbolico. Se dunque il diario non avrebbe tutti i crismi di un’opera cosiddetta letteraria, è ad ogni modo inevitabilmente un originale compromesso tra esposizione poco mediata di frammenti esistenziali e sussunzione immaginifica degli stessi.

“Unico, forse, fra tutti gli italiani, non ho mai rivestito una montura – né frack, né divisa, né dominio, né toga, né tonaca”.

Con frasi di questo tipo il celebre maestro di sfide e stroncature appare fiero di non avere mai messo un “distintivo al suo occhiello”, una “turba al suo capo” e di non appartenere a nessun club. Va d’altronde osservato come la stessa adesione al fascismo non sia stata nel complesso scevra di inquietudini essendo egli rimasto indipendente e non essendo mai stato un interessato lacchè – lo testimoniano le parole che rivolge allo stesso Mussolini, le quali, se non appaiono mai intrise di acritico odio accecatore, non sempre ne lodano le doti rivelandone anzi pure i difetti. Nondimeno che il diario non abbia un consapevole intento didascalico e storiografico lo rivela il fatto che ci si trovi quasi naturalmente immersi nella Seconda guerra mondiale senza che l’autore, almeno all’inizio, ritenga necessario, se non di sfuggita, scriverne – cosa che vale anche per la Grande guerra. Parimenti, dal 1943 in poi, malgrado una tendenza a preservare se stesso e la sua scrittura al riparo da ogni evento meramente contingente e di attualità, la guerra totale e i relativi orrori si fanno sentire – sebbene il poeta, in occasione del suo sessantatreesimo compleanno, ci tenga a ribadire di essere ancora in grado di “amare, imparare, lavorare, creare, insomma, vivere”. Si impone la volontà di restare in piedi tra le macerie per scongiurare la “rovina e i valori essenziali della nostra civiltà europea”; alla stregua del suo contemporaneo Ernst Jünger, Papini intende così difendere con la sua stessa opera l’ininterrotta “tradizione spirituale” finanche nella e dalla fucina infernale della guerra. Siffatta volontà si appalesa ancora nel fatidico 1943 allorquando Papini ribadisce che, nonostante le “ecatombi” e i “cadaveri gonfi”, ci saranno sempre “luoghi di silenzio e di raccoglimento, uomini che lavorano, che pregano, che godono, che amano, che creano, che ammirano e pensano”. Ci saranno sempre “oasi di serenità, rifugi, compensi e ristori”.

D’altra parte, il poeta disprezza chi si augura che l’Italia sia sconfitta e, presagendo gli odi che purtroppo ancora ci dividono, constata che “l’amor di patria” non sarebbe riuscito “a consumare e sorpassare l’odio di parte”. Questa incapacità proverebbe come in Italia non ci sarebbe ancora “una vera unità morale”. Non solo, nel decisivo aprile del 1945, l’autore accusa coloro che “vorrebbero essere liberati dai liberatori per essere liberi di sgozzarsi tra loro”. D’altro canto proprio a causa dei bombardamenti e dell’odio politico egli per un periodo sarà costretto ad abbandonare Firenze e avrà paura di essere preso di mira dai comunisti, i quali avrebbero inserito il suo nome “nelle liste di coloro che dovrebbero essere eliminati” (1947) così come accadde a Gentile che, malgrado gli alterchi del passato e una certa propensione al dogmatismo, avrebbe avuto “un sentimento vero e generoso”, un “afflato quasi mistico che riscaldava l’aridità della sua dialettica fichtiana ed hegeliana” (1944). La sua scomparsa avrebbe rappresentato “una perdita grave per il Paese”.

Dopo la guerra – in un clima tutt’altro che pacificato e ben lontano dalle odierne idilliache descrizioni di quei convulsi giorni di stragi e rese dei conti – Papini si spinge a sostenere che ai vincitori sarebbero state perdonate tutte le colpe mentre ai perdenti non sarebbero stati messi in conto “neppure i benefici”. Nel quadro della progressiva costruzione del nuovo ordine mondiale basato sulla contrapposizione tra i due grandi e opposti blocchi, l’“accozzaglia transatlantica” (USA e alleati) e l’“orda semi-asiatica” (URSS) sono visti alla stregua di sadici crocifissori dell’Europa e l’Italia come una “colonia anglosassone” (‘47-‘48).

Papini conosce bene il retroterra ideale del fascismo intendendolo quale “sintesi di nazionalismo e di socialismo, d’imperialismo e di sindacalismo” e avente come inconsapevoli preparatori Nietzsche, Sorel, Oriani, Pareto, D’Annunzio e Corradini (1944). Manca il riferimento al futurismo – al quale Papini insieme all’eterno amico Soffici per un breve periodo fu legato. Marinetti, in occasione della sua morte, verrà qualificato con le parole di Petrolini: “un cretino con degli sprazzi di imbecillità”. Non manca invece il riferimento a Croce, vecchio poligrafo che prima avrebbe preparato il fascismo e poi avrebbe “desiderato la sconfitta del suo paese” venendo ascoltato “come un oracolo della mediocrazia degli intellettuali” (1945). Come si coglie anche da queste trancianti parole, nel dopoguerra Papini non si accoda agli opportunisti che con estrema nonchalance saliranno sul carro dei vincitori e, allo stesso tempo, analizza con freddezza i personaggi storici tra cui il Re Vittorio Emanuele III definito “un piccolo borghese vinto e svergognato che tutti disprezzano”, “acido”, “mencio” (‘46). Lo scrittore toscano è assai disilluso e prende a prestito le parole di un giovane tornato dalla prigionia:

“l’Italia è un paese di pagliacci e di burattini. Bisogna mettersi la maschera e scegliere il teatro più sicuro e più frequentato”.

Un Paese l’Italia non solo sconfitto ma anche “occupato dagli stranieri” e “spogliato da tutti i popoli” dove la gente, invece di perdonare, si dedica alla prepotenza, alla rapina, all’omicidio; sullo sfondo – Dante Virgili al contrario – il terrore della guerra atomica che, oltre a decretare il definitivo declino della civiltà europea, potrebbe fare della terra una stella ardente. Anche le prime votazioni a suffragio universale sono recepite con poco entusiasmo visto che chi vota per la Monarchia lo farebbe controstomaco per “paura” e “tornaconto” e coloro che votano per la Repubblica lo farebbero per “rancore” e “vendetta” (3 giugno ‘46). Col consueto, incurante coraggio egli scrive ciò che in molti sensi oggi sarebbe difficile sostenere senza suscitare ingiurie e insopportabili stracciamenti di vesti: “Non s’era visto, fin qui, che i vinti si associassero alla glorificazione dei vincitori” (’47); gli europei sarebbero ormai “dei morti che altro non possono fare se non salvare gli epitaffi e scrivere la cronologia del cimitero” (’47). Se la dinastia dei Savoia è finita nella vergogna, la Repubblica sarebbe cominciata nella “mediocrità” (1° gennaio ‘48) e gli stessi intellettuali del tempo non sarebbero altro che “microbi e bacilli più che fiere. Mancano i grandi, i maestri, perfino i mostri (‘45)”. De Gasperi – come del resto De Nicola – non sarebbero stati all’altezza del compito: “nessun accento maschio, nessuna idea generale d’illuminare e di riscaldare un popolo. Per odio dell’enfasi fascista si cade oggi nella retorica del puro comunalismo materialista” (‘48).

La passione politica e quella letteraria si mischiano di continuo col pathos religioso che deriva dalla conversione al cattolicesimo avvenuta nel 1919 e che tra l’altro proprio nel quadro della guerra aveva convinto Papini a entrare come laico nell’Ordine dei Francescani col nome di fra’ Bonaventura rifugiandosi nel convento della Verna e in seguito presso il Vescovado di Arezzo. Anche per quel che concerne la religione però si fa strada l’esegesi personale e affiora, almeno così sembra, un cattolicesimo atipico, a tratti agostiniano se non talvolta quasi plotinico (“non potrò mai uscire dall’io?”), aperto alla continua e radicale automacerazione e che non disdegna il dubbio, financo radicale:

“Si può salvare per qualche via l’uomo o non rimane che l’atroce conforto di una disperata confessione dell’impossibile, dell’incurabile, dell’inutile?”

Proprio in nome di una religione vissuta in modo integrale Papini ambisce alla pace notando come in fondo non ci sia tanta differenza tra Paesi totalitari e democrazie intesi entrambi come “paganesimo pratico”. Si dovrebbe evitare di distruggersi a vicenda e accordarsi in nome della civiltà. Da un lato si ambisce ad annichilirsi misticamente in Dio, dall’altro lato si fa strada un certo scetticismo rispetto al misticismo radicale: i mistici negano l’io in Dio per poi ricordarlo nei loro libri apponendo il proprio nome. Il misticismo peraltro, abbattendo le barriere tra uomo e Dio, potrebbe condurre all’ateismo (malgrado gli stessi atei sarebbero dei credenti che credono di non credere). Papini resta non solo originale a tal punto da voler imbastire una “diabologia”, un “Evangelo dell’Anticristo” che parli del diritto e del dolore di Lucifero, ma anche assai critico rispetto alle gerarchie ecclesiastiche a tal punto da confessare che “il martirio di oggi è la convivenza con certi cattolici e con certi preti” che vanno sopportati solo per amore di Cristo (mentre altri sopporterebbero Cristo per amore dei preti). D’altronde del diavolo – “strana figura bassa e nera” alla quale in effetti lo scrittore nel 1953 dedicherà veramente il libro suddetto – egli avrebbe fatto esperienza pratica a dodici anni vedendolo attraversare la propria stanza (’48); in questo senso si tratterebbe di una figura reale che soffrirebbe e che in qualche modo avrebbe sempre a che fare con Dio – e con l’uomo. Alla stregua di Simone Weil egli vorrebbe una religione aperta alla poesia più che alla teologia e un amore “vero e semplice, calore quotidiano di gioia e sacrificio” (’47). Ecco perché l’autentico cristianesimo sarebbe ancora “di là da venire” (’47).

Lo scrittore si sente come un titano che utilizza il cristianesimo per scalare il cielo – seppur nella consapevolezza che i titani sono stati sconfitti e che – comunque – “i Pigmei”, ovvero forse la metafora di chi come i positivisti superficialmente dà per scontata la morte di Dio e ne ride (Nietzsche), “fanno schifo”. D’altra parte non è certo negata la vita nell’aldilà a tal punto che i morti avrebbero paura della vita corporea come i vivi della morte del corpo. Papini nota altresì il forte nesso che lega santità e poesia – nei poeti ci sarebbe qualcosa di santo come nei santi qualcosa di poetico (1948).

Nel Diario si percepisce la eco della lettura di Kierkegaard e Papini, progressivamente malato, quasi cieco, incapace di camminare e di muoversi, “bucato centinaia di volte”, inquieto, disperato cita sovente l’esistenzialismo che, invece di avvicinarsi alla teoria marxista, a suo avviso dovrebbe incarnare il superamento della filosofia – sulla linea del celebre saggio del 1906 Il Crepuscolo dei filosofi. Mentre si accinge a scrivere alcuni dei suoi più celebri testi, nelle riflessioni private – spesso intrise di pessimismo e di amara autoironia – emergono richiami alla concezione tragica e per certi versi, appunto, esistenzialistica: “Il solo fatto di esistere è una vergogna – uno scandalo”; la morte è il rimorso della esistenza, la sua redenzione (1948). Così – integralmente libero sino alla fine dei sui giorni e martire sofferente fino allo sfiguramento del corpo – l’uomo Papini diventa uno con parole che presto non saprà più pronunciare, mentre sfuma inesorabilmente insieme all’Europa nella stessa ferale trascendenza dell’afasia pure il suo ricordo – perché forse anche del ricordo bisogna essere capaci, anche del ricordo bisogna essere degni.


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